I GIORNI DELL'ODIO - FILM TV


In “Erba. I giorni dell’odio”, la “docufiction” sulla strage in onda questa sera su Canale 5, anche una rivoluzione estetica: basta con l’illusione del vero e il voyeurismo di massa dell’informazione-spettacolo
Se la tv passa dal reality alla realtà  
ANTONIO SCURATI
Ci può mostrare come ha fatto, signora Bazzi, a uccidere il bambino?».
«Mi devo alzare?». «Si alzi».
La signora Bazzi si alza - si alza con la sua voluminosa permanente fuori moda, con il suo cardigan da grande magazzino e con la sua catenina d’oro da prima comunione - si alza, allunga le braccia davanti a sé e, sotto gli occhi dei magistrati inquirenti, mima il gesto di uno sgozzamento. Con la mano destra tiene ferma la testa del bambino, con la sinistra, menando fendenti dall’alto in basso, gli trancia la giugulare. È un gesto macchinoso, marchiano, inesperto. Un gesto da trinciapollo. Tanto più atroce quanto più approssimativo. Bassa macelleria.

Però il bambino non c’è. La signora Bazzi stringe il vuoto tra le sue mani grossolane di assassina della porta accanto. Il bambino non c’è, la vittima è due volte assente: sia perché la signora Bazzi sta mimando l’atto sia perché la signora Bazzi non è la signora Bazzi. La donna che ci mostra come ha scannato un bambino dopo avergli sterminato la famiglia, non è Rosa Bazzi, l’autrice confessa della tremenda strage di Erba, ma Paola Messina, l’attrice che ne interpreta il ruolo nella docufiction intitolata Erba. I giorni dell’odio, che andrà in onda questa sera su Canale 5, in uno speciale di Matrix, e che noi abbiamo visto in anteprima.

Quella che abbiamo appena descritto è, infatti, la scena più violenta e, al tempo stesso, più pietosa, di un racconto di finzione, anche se di un genere molto particolare, una narrazione fittizia dettata, scena dopo scena, dalle urgenze della cronaca nera recente e rivolta a soddisfare le curiosità, comprese quelle più morbose, riguardo a essa. Ma pur sempre di finzione si tratta - finzione dichiarata, palese - e in questo sta la sua novità, forse perfino la sua virtù. Con la messa in onda di questo racconto fittizio a scopo documentario su un caso di cronaca ancora aperto, la televisione italiana attraversa un’altra soglia, sposta di un passo la frontiera del neo-neorealismo televisivo degli ultimi anni, cerca e trova nuove vie di soddisfacimento di quella equivoca passione per il reale estremo che caratterizza il gusto del pubblico. Ma non è detto che sia un ulteriore passo nell’abisso del compiacimento perverso per lo spettacolo osceno della sofferenza altrui. Potrebbe essere un passo in avanti.

L’operazione avrà conseguenze sia sul piano produttivo che su quello estetico. Sul piano produttivo perché questa istant fiction è stata realizzata in circa un mese, con soli 7 giorni di riprese ed è verosimilmente costata quanto 15 minuti di una fiction maggiore. Il low budget, in questo come in altri casi, potrebbe essere un modo per rompere il mercato e quindi anche per aprire spazi a un uso creativo del linguaggio televisivo (a questo proposito, è doveroso ricordare le pionieristiche fiction a basso costo realizzate per la Rai da Gilberto Squizzato, dalle quali, non a caso, provengono alcuni attori chiave di questo cast). Se accostata dal versante artistico, la docufiction low budget potrebbe rappresentare per la televisione l’equivalente di ciò che, anche in termini sperimentali, il digitale rappresenta per il cinema.

Ma le ricadute più importanti si potrebbero avere sul piano estetico. Da una quindicina d’anni a questa parte, l’ideologia di un nuovo realismo si è impossessata della televisione e di lì è dilagata ovunque. Si tratta, però, di un realismo simulacrale: in esso trionfa non ciò che si finge reale ma ciò che c’illude di esserlo. Una iperfinzione che per darci prova della sua autenticità sprofonda sempre di più nei toni crudi della vita, nel sangue, nello sperma, rimesta nel torbido, nell’osceno, nell’abietto. È un’orrida rappresentazione del mondo che per farci credere di essere il mondo ce ne getta in faccia il cadavere, che per provarci di essere viva, di essere «vita», ci esibisce continuamente certificati di morte. È la televisione non della realtà ma del reality, è l’informazione spettacolarizzata sul delitto di Cogne (o di Erba) che insiste sui particolari macabri dell’infanticidio e ci agita davanti agli occhi l’infanticida in carne e ossa, nemmeno fosse la statua della Madonna da portare in processione, è la solleticazione del voyeurismo di massa che ci compiace con la sofferenza altrui come quando rallentiamo sull’autostrada per spiare i cadaveri straziati in un incidente sull’altra corsia. Gettiamo uno sguardo fugace alla morte e sospiriamo: «È toccata a lui. Non a me. Grazie a Dio». E ogni volta la nostra fame di realtà insanguinata aumenta. E ogni volta la nostra sazia pietà diminuisce. Un autentico gioco al massacro.

La docufiction, quest’ennesimo ibrido, a tratti anch’esso mostruoso, al di là dei suoi esiti specifici, ci fa sperare in un’inversione di marcia, ci fa sperare in un possibile gesto situazionista che ribalti il vero-finto nel finto vero (si pensi che il regista, Squarcia, viene da Scherzi a parte, il trionfo del vero-finto). La speranza è rivolta alle virtù redentrici della finzione, allo spazio di riflessione, di rispecchiamento nella sofferenza altrui che l’arte dischiude a ciascuno di noi proprio perché si dichiara finta, proprio perché scarta dal vero al verosimile, ricordandoci che ogni singolo caso di cronaca chiama in causa l’intera condizione umana, che ogni personaggio, mentre muore o uccide sulla scena, muore o uccide al posto nostro. Forse anche sperare che la docufiction possa favorire un uso artistico della televisione, possa sostituire la tragicità all’oscenità, forse anche questa è un’illusione. Tutto dipenderà da come riempiremo il vuoto che la finta signora Bazzi stringe tra le mani mentre mima il gesto del vero omicidio, come colmeremo lo spazio lasciato simbolicamente vacante per la vittima. Se un regista di docufiction, anche a bassissimo costo, anche prodotte per cavalcare l’onda della cronaca nera, ci farà sentire che in quello spazio ci sta la nostra testa, la testa dei nostri figli, allora saremo salvi.